Covid 19, due biomarcatori per rilevare la carica virale e la severità dell'infezione
SARS-CoV2, un nuovo percorso diagnostico-terapeutico grazie alle scoperte della Task Force CEINGE finanziata dalla Regione Campania
Oggi non è possibile effettuare una diagnosi precoce di SARS-CoV-2. Anche quando si ottiene un risultato positivo al test molecolare, infatti, non si possono determinare alcune caratteristiche, che sarebbero invece molto utili ed importanti dal punto di vista epidemiologico, ancor più se il soggetto infettato è anche stato vaccinato, oltre che per un migliore inquadramento diagnostico-terapeutico.
Grazie a due scoperte fatte dai ricercatori della Task Force Covid 19 del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli (progetto finanziato dalla Regione Campania e coordinato dal genetista Massimo Zollo), sarà possibile stabilire, da un lato, quanto una persona positiva al tampone molecolare può essere contagiosa e, dall’altro, “misurare” la gravità della malattia.
Un kit che rivela la carica virale di un soggetto positivo
Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale Diagnostics*, ha identificato negli RNA subgenomici del virus SARS-CoV-2 (sgN e sgE), un potenziale marcatore diagnostico indicativo della capacità replicativa del virus. Si tratta di modulatori coinvolti nel complesso processo di replicazione virale, che i kit diagnostici in uso non rilevano. In particolare, gli esperimenti effettuati nei laboratori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate hanno individuato nel trascritto subgenomico sgN il ruolo di marcatore di una maggiore carica ed infettività virale. Ruolo che, se ulteriormente confermato su casistiche ampie, potrebbe determinarne l’impiego quale marcatore di infezione precoce, attiva, oltre che potenzialmente più severa dal punto di vista clinico.
I ricercatori hanno messo a punto un test molecolare che potrà rilevare il nuovo marcatore. Il test molecolare determina la presenza dei trascritti di sgN e sgE, discriminando tra un’infezione attiva, a maggior carica virale e, quindi, potenzialmente più infettiva.
Un traguardo raggiunto da un team di ricercatori, guidato da Ettore Capoluongo e Massimo Zollo, dell’Università Federico II di Napoli e Principal Investigator del CEINGE, con il supporto dei biologi e tecnici specializzati del Coronet Lab del CEINGE.
«Siamo partiti dall’esigenza di poter rispondere ad alcune domande – spiega Capoluongo –. Ad esempio: il virus presente in un tampone risultato positivo è in grado di replicarsi, diffondersi e determinare sintomi? È presente in alta o bassa carica? Ci siamo così concentrati sulla possibilità di identificare nuovi potenziali marcatori di attività del SARS-CoV-2, al fine di migliorare la qualità delle informazioni fornite da questi test di routine. Il dosaggio molecolare di sgN sembra rispondere a questi quesiti. L’impiego di tale marcatore potrebbe rivelarsi utile anche nelle strategie vaccinali».
«Il test molecolare, che rileva i subgenomici sgN e sgE, è stato coperto da brevetto – afferma Mariano Giustino, Amministratore Delegato del CEINGE – ed abbiamo già avviato contatti per la produzione di un kit per applicazioni cliniche (diagnosi, prognosi e terapia)».
L’analisi del livello dei ceramidi per distinguere le forme lievi di Covid-19 da quelle gravi
Un team di ricercatori del CEINGE, guidato da Margherita Ruoppolo e Giuseppe Castaldo, dell’Università Federico II di Napoli e Principal Investigator del Centro, ha scoperto che attraverso un’analisi dei livelli di ceramidi (lipidi cellulari) su prelievo ematico si può prevedere l’evolversi della malattia in una forma severa.
L’intuizione è stata quella di considerare che i lipidi dell'ospite giocano un ruolo cruciale nella vita del virus, essendo le vescicole a doppia membrana un fattore chiave nella replicazione del coronavirus. Le vie di biogenesi dei lipidi influenzano, inoltre, l'ingresso del virus mediato dai recettori sulla superficie cellulare endosomiale e modulano la propagazione del virus. In questo studio, l’analisi lipidomica è stata correlata con i profili di citochine pro-infiammatorie nel siero di pazienti COVID-19 caratterizzati da diverso grado di gravità.
«Siamo arrivati così a capire che una particolare classe di ceramidi endogeni (18 atomi di carbonio) ha livelli molto più alti nei pazienti affetti da una forma severa di patologia da coronavirus. È possibile, inoltre, pensare di poter utilizzare tali marcatori per valutare l'efficacia del trattamento terapeutico dell'infezione da coronavirus in pazienti affetti da una forma grave», spiega Margherita Ruoppolo.
Lo studio**, pubblicato sulla rivista internazionale Scientific Reports, è stato condotto su una coorte di pazienti della Regione Campania con diagnosi di COVID-19, ricoverati presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli (Unità Malattie Infettive), l’Ospedale Cotugno (Unità Malattie Infettive Respiratorie) e l’Azienda Ospedaliera dei Colli (Unità Fisiopatologia e riabilitazione respiratoria).
«Per le varie applicazioni cliniche di questo test – afferma Mariano Giustino – abbiamo depositato l’idea e siamo in attesa del brevetto definitivo».
«Si tratta di due tra i più interessanti risultati ottenuti grazie agli studi dei ricercatori della Task Force Covid-19 del CEINGE-Biotecnologie Avanzate, che da mesi, grazie a finanziamenti regionali, lavorano su tre fronti: genetica, diagnosi e terapia – afferma Pietro Forestieri, Presidente del CEINGE -. Ci auguriamo - continua Forestieri – di poter contare su ulteriori finanziamenti per portare a termine ulteriori ricerche estremamente promettenti».